Riflessione sulla Pace: è possibile ? Rubrica di Politica estera di Diego De Blasi

Oggi ospitiamo lo scritto del Dott. Diego De Blasi, laureato in Relazioni Internazionali, specialista in studi diplomatici e diritto internazionale. Parla inglese, francese, spagnolo, portoghese e cinese. Autore di pubblicazioni di settore, attualmente laureando in giurisprudenza è anche  pianista di musica classica e Jazz. 

Il Dott. De Blasi ci propone un interessante excursus sulla politica internazionale, circa la possibilità di Pace, che auguriamo possa al più presto avverarsi .


Quando un antico adagio del mondo romanistico recitava “se vuoi preparare la pace, allora prepara la guerra”, era pacifico che la sua declinazione e perifrastica passiva fossero elementi appartenenti ad un quadro lontano negli eoni del tempo. Insomma, per contrastare le tesi del Vico, “altri tempi”. Decisamente. 

Ma è sempre stato così? Si, è stato così, ma non sempre: un mondo creato sui pilastri della Pax romana – nella sua decisa articolazione ed estensione traianea, post campagna di Dacia – era realisticamente confortato da relazioni basati su meccanismi di organizzazione amministrativa fondati sull’imperium della legge. Anche

Paolo di Tarso diceva di essere cittadino romano, ma il suo messaggio era teso – prima ancora della legge - a promuovere la figura di Cristo, fondata sulla conversione nel cuore, piuttosto che sulle obligationes del diritto romano. Altri tempi? È probabile, ma sarebbe sufficiente considerare questo messaggio per costruire un modello di pace che vuole indirizzarsi agli acuti lettori di questi tempi. O, meglio ancora, “agli ermeneuti”, di quei dialoghi mediterranei, che cercano ancora d’invenire strumenti per intercettare “la pace”. In interiore est veritas homini. Presto, prima ancora che questa declinazione divenga oggetto di trattative in articolate clausole negoziali dell’ennesimo trattato internazionale. Quanti, troppi, innumerevoli, sin dal primo diritto internazionale scaturito dall’antica battaglia di Qadesh...

Sorge la domanda, allora: da quando si parla concretamente di pace estesa, o di politica estera comune e di sicurezza e difesa? 

A rigore civilistico, il quesito deve integrarsi, usando “un’espressione ginevrina”, con ciò che “le Alte Parti Contraenti” - High Contracting Parties - hanno sempre desiderato, nell’edificazione del comune intento, per raggiungere il traguardo sistematico di una “pace esterna”. Perlopiù, a dire il vero, questo processo ha sortito esiti à la George Clemenceau, mentre altre volte si è preferito lo stile, quasi caduto in oblio, della diplomazia di Bandung. Ma è la storia di Westfalia, maestra di vita, che lo insegna.

Il contesto internazionale ha inteso radicare il concetto di pace a partire dalle proprie tradizioni costitutive (costituzionali?) comuni. Per brevità ed economicità, si pensi alle dichiarazioni evocate nel vertice bilaterale di marzo tra il Governo della Repubblica Italiana e la Repubblica Popolare cinese: si dimostra sempre che le posizioni sulla pace possono essere raggiunte, pur partendo da elementi prodromici divergenti; allo stesso modo, è emerso icasticamente il ruolo della diplomazia italiana nel saper costruire traiettorie sagge ed oculate in momenti di grande criticità e di tensione internazionale. A proposito di tradizioni e dialoghi ravvicinati: Roma non è stata costruita in un solo giorno, mentre Pechino vanta una millenaria tradizione

culturale e politica, ossia oltre 5000 anni di storia, comprensivi dell’era Qin Shi Huang, primo imperatore, epoca da cui il sinismo sostiene la nozione di Pace fondata sull’impero della morale, sulle relazioni commerciali e sul principio di “Tian Xià” (“tutto sotto il Cielo”). Come scriveva “il compianto genio” del Department of State, quel millenario equilibrio, l’antico Celeste Impero, noto a Matteo Ricci (Li Madou), secolarizzato nella Repubblica popolare cinese, prima dell’esperienza del 1911, è stato edificato con modalità diverse rispetto ai caratteri centifughi del continente europeo. D’altro lato, l’Europa politica, affidatasi allo Spirito di Westfalia ed Utrecht, era stata sconquassata da carestie, peste di memoria boccacciana, guerre civili e sogni di nuovi imperia che tramontano dove il sole non tramonta quasi mai. E poi: ghigliottine armate, invasioni e nuovi sogni napoleonici, boulangismo misto all’altrettanto visione onirica – forse più coinvolgente - di trovare una pace stabile, dopo il sangue versato in entrambi i conflitti mondiali. Ed anche lì, imperi finiti, come quelli centrali della Pace di Versailles. Eppure, tutto ciò non è mai stato ostativo al desiderio di creare una pace, più che “giusta e duratura”, quando la pace incontri l’animo di coloro che la vogliono fondare. Imperativo categorico, ma con la paura di una escalation missilistica a Kaliningrad. Non abbiate timore. C’è l’Unione europea.

 Ed ecco, appunto l’Europa, a cui spesso si allegano le nuncupazioni che anticipano, tra un corso e ricorso storico, un consenso ed un dissenso. Per la serie, un po’ uno sguardo, anche “critico”, al Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni – la politica, arte nobile, si sa, come diceva Nicolò Machiavelli, è un invito alla mobilitazione delle truppe mercenarie volontarie (sic) – sino ad uno sguardo mediatico propositivo ed istituzionale sull’orizzonte dello “State of the Union”, oggi con alcune innovazioni 4.0 che danno un sapore di sostenibilità alla pace del XXI secolo. Luce verde, quindi, oltre a questa pace giusta e duratura (se qualcuno avesse capito cosa significhi, lo dica), anche ai T-34 green, insomma. Mentre gli USA negoziano a Riyad nell’alveo della dottrina Monroe.

Uno splendido isolamento, ma diplomatico. Per convesso, al di là di pace armate altrove, ce n’è da riflettere, qui, in questa Europa: se il Trattato CECA ha creato le basi per la composizione del conflitto secolare franco- tedesco, oggi possiamo affermare che l’Unione Europea costituisce un régime politique per la costruzione di una pace che trova un senso profondo nell’egida dei Trattati costitutivi. Quando, allora, “L'Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli” (art. 3 TUE), si rende palese il significato profondo dell’esistenza di una comunità economica, politica, sociale e, soprattutto, di diritto; soprattutto, nell’ultima accezione, quando essa consenta la pregiudizialità del Lussemburgo a tutela dei diritti delle persone fisiche e giuridiche, che voglia anche maturare la propria struttura, per affermare la propria posizione

come interlocutore nelle relazioni internazionali. Sia chiaro, in modo bilanciato: nulla a che vedere quando gli animi fraterni al di là della Groenlandia, forse oggi un po’ distaccati, si accendono in sede di applicazione di misure tariffarie, con la sentenza “vediamo, se possibile, che l’Italia abbia qualche trattamento di favore” (per esteso, invero: dicasi “politica commerciale comune”, come dichiara l’art. 207 TFUE).

In ogni caso, mai dimenticare che l’Italia possa sicuramente ispirare ancora la comunità internazionale a

ritrovare soluzioni concertate anche nei momenti più difficili. Allo stesso modo, il costruire un dialogo

strutturato tra cittadini ed Istituzioni europee, a riguardo di temi delicati – tel quel, il completamento giuridico

della PESC e PESD, sullo sfondo delle più risalenti risoluzioni Lund-Westerterp - muove dal fatto che l’attività politica ed i rappresentanti all’organo legislativo abbiano un compito delicato nel promuovere una certa socializzazione primaria sul punto. Senza dimenticare la sussidiarietà delle assemblee legislative nei rapporti con il Parlamento Europeo, oggi istituzione che rappresenta una popolazione di oltre 448 milioni di abitanti, lungi che il processo d’integrazione sia ancora completato (widening). E non serve, in questo caso, neanche intendere “ chi dobbiamo chiamare per parlare di pace in Europa”, ovvero con l’Europa: l’Italia è già pronta, costruendo a prescindere un dialogo generativo nello scenario internazionale, avviando passi necessari per sostenere i processi di normalizzazione delle aree di crisi. Quei dialoghi mediterranei e quelle visioni di uomini che oggi possono navigare ancora sull’Amerigo Vespucci. Di certo, il mondo dovrà ancora fare i conti con il fantasma di Clausewitz, il vero convitato di pietra ai prossimi vertici internazionali tesi

all’obiettivo di ristabilire una pace nel conflitto ucraino, ovvero nel mediterraneo orientale. Gli italiani ne prendano coscienza e se ne facciano una ragione, quando saranno pronti a muovere le proprie truppe

coscienti, quandanche assenti ingiustificati ai tavoli della diplomazia.

                                                                                                                                 


                                                                                                                                       Diego De Blasi

 

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